Gohan, il 13enne malato di cancro che ha fatto impazzire il Madrigal

gohan

 

Trenta secondi, quattro passaggi, una corsa verso il centro dell’area; poi una finta, il portiere da una parte e lui dall’altra.
Una ruleta, figlia del miglior Zidane, prima di un gol che fa impazzire tutti: tifosi, compagni di squadra, persino avversari.

 

Potrebbe racchiudersi in quei soli trenta secondi la storia di Gohan.
Colombiano, 13 anni, in Spagna, più precisamente a Valencia, da quando ne ha sei; da quando i suoi genitori Luis Eduardo e Ayda scavalcarono l’oceano per regalarsi e regalare al figlio un futuro migliore.
Emigranti, ma praticamente al contrario.
La vita di Gohan, però, in Sudamerica o in Europa, non sembra tanto facile: appena arrivato in Spagna la scoperta del primo cancro, superato dopo anni di battaglie.
Alcuni mesi fa, una nuova brutta scoperta: quel sarcoma di Ewing che ha fatto sprofondare di nuovo nel buio lui e la sua famiglia.

 

Non tutto, però, può andare per il verso sbagliato.
Perché Gohan, a soli 13 anni, ha potuto realizzare il sogno di migliaia di bambini, malati e non.
Quei bambini che ogni fine settimana guardano a bocca aperta i loro campioni giocare sui campi della Liga.
È stato il Villarreal ad offrirgli una chance: “Gioca con noi, per tutti i bambini che vorrebbero farlo al posto tuo”, gli hanno detto.
Non se l’è fatto ripetere due volte Gohan, che a quegli occhi vispi e pieni di speranza ci aggiunge due piedi niente male.
E così viene invitato dalla squadra a prendere parte all’amichevole disputata al Madrigal contro il Celtic Glasgow.
Arriva agli spogliatoi, saluta i suoi idoli, poi si cambia e scende in campo: la numero 12 risplende durante il riscaldamento e al momento del fischio d’inizio.
Poi quella corsa, quel gol e quell’esultanza che Gohan non potrà mai dimenticare.
Festeggiato come una stella che ha compiuto in volo il suo sogno.

 

“Tutto quel che è successo negli ultimi giorni è stato importante per lui. Dopo tutto quello che ha sofferto e soffre, c’è anche qualcosa per cui gioire”, dice la famiglia.
“Non ho dormito in queste notti, ho sempre sognato questo momento. Sono in un sogno” fa eco lo stesso Gohan.
Il minivideo-documentario girato dalla società spagnola racconta meglio di ogni altra parola la sua notte da sogno.
E racconta bene quanto lo sport ed il calcio, in realtà, vadano ben oltre i gol e i risultati di ogni domenica.

 

 

 

 

 

CHAMPIONS LEAGUE – I 5 motivi per cui non perdersi Real Madrid-Atletico Madrid

sw

Poche ore, poi Lisbona si trasformerà in Madrid.
La Torre di Belem assumerà i tratti di una fontana, ma non si sa ancora se sarà quella in cui festeggeranno i tifosi del Real o invece quelli dell’Atletico.
Ecco, a mio parere, perché stasera non bisogna staccarsi dalla Tv e godersi la partita.
Buona finale.

 

1 – Perché, in un modo o nell’altro, siamo davanti alla storia: quante volte è successo ritrovarsi davanti a due squadre della stessa città che si giocano il trofeo più importante del continente?

2- Perché se il Real vince alzerà al mondo la decima Champions della sua storia, un traguardo non proprio raggiungibile per tutti.
E Ancelotti per la gioia mangerà tutti gli avversari.

3 – Perché se l’Atletico vince alzerà al mondo la prima Champions della sua storia, e sarebbe super meritata.
E Ancelotti, per il dolore, mangerà tutti i suoi giocatori.

4 – Perché si ritroveranno contro due filosofie di calcio belle, vincenti, ma diametralmente opposte.
Da una parte, la classe al potere del Real. Dall’altra, un ‘conjunto’ perfetto, una squadra che pare un unico corpo, figlia delle idee di un allenatore in rampa di lancio.

5 – Perché se il Cholo vince se le porta a letto tutte stanotte. Il Portogallo tutto è avvertito.

 

 

Champions ed Europa League – Commento sparso sui sorteggi

Ormai vale la pena vederli come si vedrebbe una partita. Perché anche se in campo non ci scende nessuno, da un sorteggio può dipendere o meno tutta una stagione.
Oggi a Nyon, come sempre, si è alzato il sipario che ha delineato gli ottavi di Champions ed i sedicesimi di Europa League.
Cinque le italiane interessate: Milan (Champions), Napoli, Juve, Fiorentina e Lazio (Europa League).

Il Milan pesca l’Atletico Madrid.
“Menomale. Poteva capitarci di peggio”, dicono in Italia. Peggio di una squadra primatista il Liga con il Barcellona e sopra al Real Madrid? Peggio di una squadra che su sedici partite ne ha vinte quattordici, persa una e pareggiata una? Peggio di una squadra che ha chiuso da prima imbattuta il girone di Champions con  16 punti, a +10 dalla seconda?
Contenti voi.

Napoli-Swansea.
Dove si trova Swansea? In Galles. Ah.
E dove si trova il Galles? Nel Regno Unito. Ah.
Vabè, l’importante è vincere. Comunque i gallesi hanno un bell’allenatore, Laudrup, e belle individualità. Teneteli d’occhio.

Trabzonspor per la Juventus.
Allora ditelo che vi piace la Turchia, il Kebab e i gol di Sneijder.
Se passa può incontrare la Fiorentina.

Esbjerg-Fiorentina.
Il sorteggio migliore, anche se in Danimarca a Febbraio fa freddo freddo.
Se passa, e deve passare, può incontrare la Juve.

Lazio- Ludogorets.
Il sorteggio migliore (parte II), ma i bulgari sono andati forti nel girone, proprio come la Lazio, battendo PSV e Dinamo Zagabria.

Barcellona-City.
Voglio proprio vedere questo City dove vuole arrivare.

PSG-Leverkusen.
Questi francesi sempre così fortunati, eh.

Borussia-Zenit.
La striscia fortunata continua anche ai sorteggi.

L’Arsenal pesca il Bayern.
La sconfitta del San Paolo costa. Almeno questo.

Avevo una speranza. Poi ho visto i bambini allo stadio della Juve

Premessa.
Io non ero d’accordo su questa cosa dei bambini per riempire le curve vuote; ero d’accordissimo.
Ragazzini che si approcciano allo sport e che magari molte volte restano a casa perché lo stadio “è roba da grandi”, avrebbero riempito splendidamente una curva, una tribuna, o qualsiasi altro settore.
Ma dopo aver visto quanto successo durante la partita Juventus-Udinese, coi mini-ultras entusiasmati a gridare un sonoro “Merda” – tradizionale epiteto per un estremo difensore che si accinge al rinvio – al povero Brkic, non solo ho cambiato idea, ma ho perso pure la speranza.
La speranza che questo Paese, in fondo, potesse avere ancora una speranza.

bambini

È ignobile, vergognoso, abietto.
È quanto di peggio ci si potesse aspettare.
È un calcio nelle parti basse di chi aveva avuto quell’idea, di chi l’aveva proposta, di chi l’aveva appoggiata.
Perché un bambino che guarda una partita deve fare tutto, ma non può gridarti “Merda“.
Perché in fondo se lo fa il bambino avrà pur ascoltato da qualcuno, no?
Perché se quella razza inferiore, becera, infima che sono i tifosi di mezzo mondo, non ha problemi a denudare cliché e tabù dinanzi a 13enni, allora siamo alla frutta.

Qualche anno fa mi imbattei in una notizia curiosa: per evitare la violenza negli stadi polacchi, la federazione aveva pensato bene di mandare un numero assai elevato di giovani o meno giovani prelati in mezzo agli ultras che puntualmente mettevano a ferro e fuoco gli impianti.
Nel giro di poche partite le violenze si dimezzarono.
In Inghilterra, invece, sono bastate poche settimane di botte – ma botte vere però – da parte della polizia per dare il la alla repressione degli hooligans.

Considerando che in Italia non abbiamo una forza di polizia che possa permettersi le stesse cose (scoppia un caso se un poliziotto procura un graffietto ad un pluripregiudicato, tanto che Barbara D’Urso ci riempie le scalette di mezza stagione, figurarsi una sana mazziata ad un tifoso un po’ ‘irruento’) e che manco i bambini attutiscono l’impatto di un’ignoranza dilagante, qual è la soluzione?

Non lo so.
Io, nel frattempo, ho perso la speranza.

Basket – La lettera aperta di Petrucci per salvare il movimento italiano

Il presidente della FIP Giovanni Petrucci ha scritto una lettera aperta al ministro per gli Affari Regionali, le Autonomie e lo Sport Graziano Delrio per la revisione della legge 91/1981. Ecco il testo qui di seguito

Roma, 25 novembre 2013

petrucci_presidente_basket_getty
Signor Ministro,

Mi affido ad una lettera aperta non avendo altra possibilità per raggiungerLa diversamente.

Faccio seguito al mio recente intervento al Consiglio Nazionale del CONI alla Sua presenza, del Presidente del Consiglio e del Ministro Lorenzin per chiarire e ribadire la situazione del basket italiano.

Il basket è lo sport che, dopo il calcio, alimenta le scommesse sportive, che insieme agli altri concorsi pronostici finanzia lo sport italiano e che, sempre dopo il calcio versa rilevanti somme all’Erario, anche a seguito di un rispettato accordo firmato con l’Agenzia delle Entrate.

E’ chiaro che stante l’attuale situazione economica anche le società sportive di base soffrono di una seria crisi.

Ribadisco quindi che le sedici società professionistiche attraverso la FIP chiedono una revisione della legge 91/81, datata trentadue anni fa, con tutti i cambiamenti che sono avvenuti nel Paese e nello sport.

I problemi e la situazione del basket professionistico sono diversi da quelli del calcio, mentre la su richiamata legge unifica le due discipline.

Il basket è uno sport gradito dai giovani, come viene attestato dal numeroso pubblico che settimanalmente riempie i palazzetti dello sport e che per spettatori è preceduto solo dal calcio.

Questo movimento ha “laureato” quattro grandi campioni che sono i nostri ambasciatori nella NBA.

Signor Ministro, peraltro vive in una città dove per merito della storica Pallacanestro Reggiana è confermato questo amore.

Se, come sembra, la legge sugli impianti sportivi, sarà approvata entro l’anno, gli eventuali benefici però delle società che costruiranno impianti saranno riscontrabili dopo diversi anni, mentre quelli della modifica delle legge 91/81 potrebbero essere contestuali all’approvazione.

Al CONI del Presidente Malagò non possiamo rimproverare assenze perché studia interventi nel mondo professionistico, ma come si sa, le leggi sono varate dal Parlamento.

E’ bene chiarire però, che il bilancio della FIP è alimentato dall’80% di risorse proprie e dal 20% di pubbliche. Ora però non possiamo chiedere di più a queste società.

Signor Ministro, bene conosco le priorità del Governo e i molteplici impegni del Suo Ministero, certamente più urgenti dei nostri, peraltro sono Sindaco di una bella città che giornalmente constata le gravi difficoltà dei cittadini.

Questa modifica però comporta pochi o nessun onere per lo Stato.

Vengo anche io dal mondo del calcio e lo so bene: la politica si movimenta spesso solo per questo sport.

Signor Ministro, smentisca quanto si è verificato finora.

In altri paesi non è così.

Il basket non si abbandona alla rassegnazione.

La ringrazio per l’attenzione.

Cordialmente,

Giovanni Petrucci

Pallone d’Oro, perché tanti problemi?

Rieccoci ancora, dopo un anno.
Con l’approssimarsi di dicembre, del freddo, di Natale, torna puntuale la domanda/dibattito che i calciofili di mezzo mondo solo soliti porsi: “Chi merita il pallone d’Oro?”
Ci fosse una risposta unitaria non saremmo in un mondo giusto: ognuno ha le sue idee, ognuno le sue preferenze.
Ma mai come quest’anno la disputa pare essere accesa e irrisolvibile.
Perché?

Per ogni stagione che passa è sempre più difficile stabilire una graduatoria di merito.
Questo perché sempre più lampante si fa la “vacatio legis” che agisce intorno a questo premio.
Chi vince la Coppa del Mondo è perché si è aggiudicato una finale, chi vince la “Scarpa d’Oro” è perché ha segnato più di tutti in un determinato arco di tempo, chi vince il “FIFA Puskás Award” è perché ha segnato il gol (secondo chi giudica) più bello della stagione.
Ma quali sono i criteri di decisione per l’assegnazione del Pallone d’Oro?

Nessuno, tantomeno i vertici UEFA, hanno mai precisato nulla sull’argomento.
L’idiosincrasia è ampliata poi da quando, nel 2010, il premio è stato fuso con il “FIFA World Player of the year”, dando vita ad una ‘mezcla‘ caotica che ha solo complicato le cose.
Indicativo il parere del telecronista spagnolo che ascoltavo commentare Svezia-Portogallo di qualche giorno fa: “Non so se vincerà il Pallone d’Oro, ma Cristiano è attualmente il più in forma del pianeta. D’altronde questo premio l’ha vinto Cannavaro e non Maldini, quindi nulla può darsi per scontato..”

Germany Soccer Champions League

Se consideriamo che l’assegnazione valga il numero dei trofei vinti nell’ultima stagione, allora ecco che non c’è Cristiano Ronaldo che tenga: Ribery sarebbe in questo caso il simbolo di un Bayern cannibale che ha fatto incetta di vittorie nella stagione passata.
Se, invece, siam sicuri che questo è un premio che va assegnato a chi nell’ultima stagione è stato individualmente il migliore, ecco che se ne può parlare, e ovviamente il portoghese di prima potrebbe avere più di una voce in capitolo.
Ma c’è un altro criterio: perché se vogliamo che ad alzare il Pallone d’Oro sia sempre il più forte in assoluto ad aver calcato i campi negli ultimi 12 mesi potremmo stare qui a discutere giorni e giorni su chi sia il migliore.
Per me dovremmo fare un abbonamento a quello che veste la ’10’ a Barcellona.

PS. I problemi di questo premio si avvertono dalla notte dei tempi. Per sciocchezze burocratiche oggi si ritrovano un premio da intitolare al più forte del mondo senza averlo dato, trent’anni fa, al più forte della storia.
Corsi e ricorsi storici, diceva Vico.

Allen I, l’ultimo grande uomo

Nella mia vita da cestista, praticante prima e appassionato narratore dopo, due sono gli sportivi che mi sono rimasti dentro: Kobe Bryant ed Allen Iverson.
Per capire il senso della mia affermazione bisogna fare un piccolo (?) salto indietro.
Giugno 2001:  giocavo da tre anni ormai, però nella testa di un ragazzino di dieci non sempre è chiaro quel che si fa.
Neanche a me lo era, né mi pareva possibile che dall’altra parte del mondo giganti dello stesso sport da me praticato potessero sfidarsi in quella che poi ho scoperto essere la Lega più bella del mondo.

2112013

Non avevo un computer, internet non era ancora entrato in molte delle case che oggi viaggiano in rete, e l’unico modo di poter accedere alle news d’oltreoceano, per un ragazzino di dieci anni, era aspettare il sabato pomeriggio, quando sul terzo canale Rai andava in onda “NBA Action”, una “rubrica settimanale di highlight che comprende anche le ultime informazioni dalla Lega e un riepilogo delle migliori azioni della settimana in archivio“, come specificato da questo ARTICOLO che ho ritrovato parecchi anni dopo.

Seguì tutta la Regular Season, e affanculo il riposo del sabato pomeriggio, forse il momento di massima ribellione nella mia piatta pre-adolescenza.
Non ricordo quanto tempo durasse: mezz’ora, un’ora, forse due, comunque sempre troppo poco per placare la fame di NBA.
Caso volle che alle Finals del 2001 mi ritrovo davanti questi tre qui, in ordine di apparizione: “From Philadelphia, the number 8, Kobe Bryant”, “From Lousiana State University, with the number 32, Shaquille O’Neal” e “From Georgetown, with the number 3, Allen Iverson”.
Mi innamorai di tutti e tre.
E per quanto il mio cuore volesse sanguinare “Purple&Gold”, non poteva non emozionarsi per le giocate di quello alto 180 centimetri, se proprio ci si sforza.
Furono Finals epiche, però alla fine vinsero i più forti e i più deboli tornarono a casa con le ossa rotte.
Ma la Gara 1 che si giocò allo Staples l’avrò vista e rivista almeno cento volte in vita mia: è una delle dimostrazioni che il mondo ci ha dato del “Se vuoi, puoi”.
Dio aveva vestito la numero 3 di Phila, quella notte, per mostrare a tutti il talento di Allen. E l’aveva fatto altre volte anche prima di quella partita, dalla Semifinale di Conference in 7 partite contro i Raptors fino alla Finale di Conference contro Milwaukee, vinta sempre in Gara 7.
La cosa paradossale è che quelle Finals saranno per AI il punto più alto della sua carriera, ad appena cinque anni dall’entrata nella Lega.
Mai più ritroverà una stagione così lunga, mai più una squadra disposta a giocare per lui e con lui. Nonostante anni di medie realizzative alte, di magie, di dimostrazioni al mondo che “Io sono io e voi non siete un cazzo, perché quando voglio vengo a schiacciarvi in testa”.

La fine della sua carriera non è stata decorosa quanto l’inizio.
Ma anche se non lo vedremo più su un parquet, le lezioni che AI ha dato al mondo dovrebbero essere patrimonio dell’UNESCO.
Come gli scavi di Pompei o il gol di Maradona contro l’Inghilterra.

Post Scriptum: al primo anno di Liceo, quindi tre anni dopo quelle Finals, avrei voluto fare le treccine ai capelli esattamente come lui.
Mia madre mi fermò – e menomale – ma non m’impedì di portare dentro una parte di AI. Una parte che tutti gli appassionati porteranno sempre con loro.

 

53 volte Di(eg)o. Una ’10’ contro i mascalzoni del mondo

Lo scopo, per uno che vuole farsi ricordare come il migliore di sempre, sarebbe quello di farsi apprezzare da tutti.
Amici e nemici. Compagni e avversari.
In questo, e in molto altro, è sempre riuscito Diego Armando Maradona.
Il peccato non è tanto che come lui non ne nasceranno almeno per i prossimi duemila anni, quanto che quel suo carisma, quella sua voglia di metterci la faccia, farebbero bene in molti ambiti del nostro mondo.

Diego-Armando-Maradona-goles-960x623

La storia di Diego parte da Villa Fiorito, si sviluppa a Buenos Aires, passa per Barcellona, sboccia a Napoli e s’illumina d’immenso a Città del Messico.
È bello, ma non facile, raccontarne la parabola. Come tutte, fatta di alti (tanti), bassi (altrettanti), ma ma medi; lui che uomo di mediocrità proprio non è.
Le vittorie facevano il paio con la droga, il talento con gli scandali, la storia del calcio con i continui problemi che doveva portarsi dietro.
In questo caso non vale “Genio e sregolatezza”; Diego era, ed è, solo Genio.
Un Genio che dentro e dietro non ha mai avuto la capacità di limitarsi, perché limitarsi significava non essere Maradona.
Ma se uno da bambino dice di avere il sogno di “Giocare con l’Argentina e vincere la Coppa del Mondo” ci sta, il punto è che anni dopo ci è riuscito, portando in vittoria il Paese.
Si, perché con Maradona in campo, in quel lontano ’86, non c’erano altri dieci giocatori, ma piuttosto tutta la nazione, il cui peso non schiacciava le spalle del numero 10, ma anzi le allargava, abbassandone il baricentro.
Lo stesso baricentro che parte da centrocampo, ne supera uno, due, poi tre e ancora quattro prima di scalzare il portiere e mettere in porta il gol che tutti, a ragion veduta, considerano “del secolo”.
Morales, commentatore di quella partita, ha avuto la fortuna e, insieme, la sfortuna di ritrovarsi dinanzi ad uno spettacolo che non puoi raccontare.
Non ci sono parole, mai ce ne sono state per Maradona.
L’unica che i tifosi del Napoli gli ripetono da trent’anni è “Grazie“.
Perché Diego ebbe l’ardire e l’ardore di vincere dove nessuno era riuscito, di trasformare la Curva B in una “torcida”, di rendere Napoli provincia i Buenos Aires.
Dal primo all’ultimo giorno, il re incontrastato di un popolo che, vista l’assenza di alternative, gli affidò le chiavi del destino, quantomeno sportivo.
Oggi Diego è considerato ancora un Dio. Uno di quelli che potrebbe far di tutto ma mai mettere in discussione il suo status di divinità.
Dalla “Mano de Dios” con l’Inghilterra, alla punizione con la Juve, il gol con la Lazio, gli Scudetti, le Coppe, il Mondiale, tutti i tifosi di calcio conoscono le sue gesta.
Non sarà stato l’uomo perfetto, ma è amato, apprezzato, stimato da tutti.
Solo i più grandi possono. Solo il più grande può.

Lunga vita a Diego, dunque, a 53 anni esatti dalla sua ‘venuta’.
E lunga vita anche a chi, come il sottoscritto, è venuto al mondo proprio mentre lui scriveva gli ultimi capitoli della sua carriera, ma è come se lo avesse sempre visto in campo.
O a chi, come Francisco Cornejo, suo primo allenatore ai tempi dell’Argentinos Juniors, aveva già capito tutto: “Non ho scoperto io Maradona, Maradona non si può scoprire. Maradona te lo manda Dio.”