Allen I, l’ultimo grande uomo

Nella mia vita da cestista, praticante prima e appassionato narratore dopo, due sono gli sportivi che mi sono rimasti dentro: Kobe Bryant ed Allen Iverson.
Per capire il senso della mia affermazione bisogna fare un piccolo (?) salto indietro.
Giugno 2001:  giocavo da tre anni ormai, però nella testa di un ragazzino di dieci non sempre è chiaro quel che si fa.
Neanche a me lo era, né mi pareva possibile che dall’altra parte del mondo giganti dello stesso sport da me praticato potessero sfidarsi in quella che poi ho scoperto essere la Lega più bella del mondo.

2112013

Non avevo un computer, internet non era ancora entrato in molte delle case che oggi viaggiano in rete, e l’unico modo di poter accedere alle news d’oltreoceano, per un ragazzino di dieci anni, era aspettare il sabato pomeriggio, quando sul terzo canale Rai andava in onda “NBA Action”, una “rubrica settimanale di highlight che comprende anche le ultime informazioni dalla Lega e un riepilogo delle migliori azioni della settimana in archivio“, come specificato da questo ARTICOLO che ho ritrovato parecchi anni dopo.

Seguì tutta la Regular Season, e affanculo il riposo del sabato pomeriggio, forse il momento di massima ribellione nella mia piatta pre-adolescenza.
Non ricordo quanto tempo durasse: mezz’ora, un’ora, forse due, comunque sempre troppo poco per placare la fame di NBA.
Caso volle che alle Finals del 2001 mi ritrovo davanti questi tre qui, in ordine di apparizione: “From Philadelphia, the number 8, Kobe Bryant”, “From Lousiana State University, with the number 32, Shaquille O’Neal” e “From Georgetown, with the number 3, Allen Iverson”.
Mi innamorai di tutti e tre.
E per quanto il mio cuore volesse sanguinare “Purple&Gold”, non poteva non emozionarsi per le giocate di quello alto 180 centimetri, se proprio ci si sforza.
Furono Finals epiche, però alla fine vinsero i più forti e i più deboli tornarono a casa con le ossa rotte.
Ma la Gara 1 che si giocò allo Staples l’avrò vista e rivista almeno cento volte in vita mia: è una delle dimostrazioni che il mondo ci ha dato del “Se vuoi, puoi”.
Dio aveva vestito la numero 3 di Phila, quella notte, per mostrare a tutti il talento di Allen. E l’aveva fatto altre volte anche prima di quella partita, dalla Semifinale di Conference in 7 partite contro i Raptors fino alla Finale di Conference contro Milwaukee, vinta sempre in Gara 7.
La cosa paradossale è che quelle Finals saranno per AI il punto più alto della sua carriera, ad appena cinque anni dall’entrata nella Lega.
Mai più ritroverà una stagione così lunga, mai più una squadra disposta a giocare per lui e con lui. Nonostante anni di medie realizzative alte, di magie, di dimostrazioni al mondo che “Io sono io e voi non siete un cazzo, perché quando voglio vengo a schiacciarvi in testa”.

La fine della sua carriera non è stata decorosa quanto l’inizio.
Ma anche se non lo vedremo più su un parquet, le lezioni che AI ha dato al mondo dovrebbero essere patrimonio dell’UNESCO.
Come gli scavi di Pompei o il gol di Maradona contro l’Inghilterra.

Post Scriptum: al primo anno di Liceo, quindi tre anni dopo quelle Finals, avrei voluto fare le treccine ai capelli esattamente come lui.
Mia madre mi fermò – e menomale – ma non m’impedì di portare dentro una parte di AI. Una parte che tutti gli appassionati porteranno sempre con loro.